Scritto da Don Flavio ferraro Martedì 29 Ottobre 2013
La Parabola del fariseo e del pubblicano non è tanto una parabola per dire “come” si deve pregare, ma è un racconto per dare una lezione di vita. D’altra parte Luca lo afferma chiaramente: Gesù “disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri”.
È una malattia diffusa, questa; una patologia di ogni tempo. Papa Francesco torna spesso su questo peccato che assume le sfumature del giudizio, della calunnia, della chiacchiera… Già, la presunzione gioca sempre brutti scherzi: ogni giorno c’è almeno un’occasione in cui vogliamo vestire la toga dei giudici e condannare gli altri, disprezzandoli. Perché presunzione e disprezzo sono il diritto e il rovescio della stessa medaglia. L’invito di Gesù dunque è duplice: insegnare come pregare, ma soprattutto come vivere, perché nella parabola la preghiera viene considerata come uno specchio della vita.
Se infatti sei fariseo nella preghiera lo sei anche nella vita; pubblicani si è nella preghiera e pubblicani si è nella vita. È una parabola nello stile di Luca: come i due fratelli dinanzi al padre misericordioso (cf Lc 15, 1-32); come nella vicenda del ricco epulone e del povero Lazzaro (cf Lc 16, 19-31). Il fariseo ci fa pensare ad una categoria religiosa, quasi sempre in polemica con Gesù, osservante, scrupolosa, schiava di un formalismo esteriore, non aperta alla novità portata dal Vangelo; il pubblicano invece richiama una categoria sociale, quella dell’agente delle imposte, doppiamente odiato dalla gente, e perché simbolo di una politica ingiusta e perché ebreo venduto al potere di Roma. Ma Gesù, nella parabola, non vuole condannare o salvare una categoria sociale, perché il bene e il male non si definiscono in base ad un’appartenenza. Gesù si limita a mettere a fuoco due atteggiamenti di preghiera e di vita, assunti da due uomini che sono saliti al tempio appunto per pregare. Gesù li avrà incontrati tante volte e – credo sia l’esperienza di tutti – anche noi li incontriamo spesso, nelle nostre chiese, quasi tutti i giorni.
Il fariseo è l’uomo di ogni tempo che incarna un tipo di preghiera che finisce poi in un monologo, senza mai diventare dialogo. Inizia bene, ringraziando (come il lebbroso guarito di due domeniche fa) ma subito la sua preghiera, prende una brutta piega e muore. È ciò che capita a chi ha il cuore pieno di sé. A chi crede che, grazie alle nostre pratiche esteriori, Dio ci sia sempre debitore. Il fariseo è l’immagine di un uomo ancorato al passato, alle abitudini sterili, alla beneficenza senza cuore, incapace di aprirsi alla novità dell’amore.
Dio diventa solo un’occasione per parlare dell’ “io”. Assomiglia a tanti momenti della nostra vita, in cui ci sentiamo padroni di tutto e non ci accorgiamo di essere schiavi di noi stessi. “Il pubblicano invece… non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo”. Sente il peso dell’infinita distanza e avverte che può essere superato solo tramite la misericordia di Dio. Chiede perdono con la speranza umile di ottenerlo. Perché solo se ci svuotiamo dell’io possiamo accogliere Dio. Ecco dunque la chiave di volta del messaggio di questa domenica: l’umiltà, una parola non solo impopolare ma quasi esiliata dal linguaggio del nostro tempo. Roba da monaci o da suore, si dice, persone che hanno fatto lo strano salto in un “altro” mondo.
Perché oggi si vive, anzi si deve vivere sotto i riflettori dell’immagine e dei molti poteri; per cui alcune parole fanno sorridere. Ma senza umiltà non incontreremo mai Dio, non potremo mai penetrare le nubi… Solo se la preghiera è vera, cambia profondamente la vita, schiude il cuore alla risposta di Dio, lo dispone alla pace con se stesso e con gli altri, attrezza all’impegno sulle ardue frontiere dell’esistenza quotidiana. Mi piace a questo proposito citare S. Teresa d’Avila che usa l’originale esempio del gioco degli scacchi, dicendo: Credetemi, colui che giocando a scacchi non sa dispor bene i pezzi, giuocherà molto male: se non sa fare scacco, non farà neppure scacco matto... Voi certo mi biasimerete nel sentirmi parlare di giochi...
Dicono che qualche volta gli scacchi sono permessi; a maggior ragione sarà permesso a noi di usarne ora la tattica. Anzi, se l’usassimo spesso non tarderemmo a fare scacco matto al Re divino... A scacchi la guerra più accanita il re deve subirla dalla regina, benché vi concorrano da parte loro anche gli altri pezzi. Orbene non vi è regina che più obblighi alla resa il Re del cielo quanto l’umiltà . Solo la preghiera umile, il “pezzo” forte, la nostra “regina”, può fare “scacco matto” a Dio. Solo dichiarandoci perdenti, potremo vincere la prova dell’amore. Ecco dunque la bellissima conclusione del vangelo di oggi: il pubblicano tornò a casa “giustificato”.
Non si dice solo “perdonato”, ma “giustificato”: è quanto accade in noi quando ci viene comunicata la grazia dello Spirito Santo attraverso i sacramenti: Dio non solo ci rimette i peccati, ma, grazie alla passione, morte e resurrezione di Cristo – che ci ha aperto la via della Vita – opera potentemente in noi santificandoci e rinnovando l’uomo interiore.
La “giustificazione” nel Catechismo della Chiesa Cattolica (n° 1994) viene definita l’opera più eccellente dell’amore di Dio. Chi è “fariseo” è chiuso a questa opera della Grazia; per lui – come per il ricco epulone – ci può essere stata anche la morte e la resurrezione, ma la sua vita non cambia. Dio desidera per noi questo splendido legame tra la sua opera e la nostra libertà. Il pubblicano, ad occhi bassi, ha aperto il cuore a questo Incontro e potrà guardare con i suoi occhi Dio in tutto il suo Amore. Forse oggi potrà succedere anche a noi…